Il soggetto che ride

Publikation Daten

Verlag: Dokumentationsstelle für ost- und mitteleuropäische Literatur
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Publikationsdatum: 19. Mai 2014
Ausgabe: Philosophisches Forum
Vorrätig: YES
Land: Italy
Siehe auch:

Übersetzung: Das lachende Subjekt

Il soggetto che ride

Karel Kosík e il comico

 

 

di Francesco Tava

 

 

 

 

 

Chi presta ascolto al linguaggio, sente il suo riso

K. Kosík

 

 

I. Umanità e distanziamento

 

In un breve trattato, apparso nel 1900, Henri Bergson ha tentato di mettere in luce la complessità e gli aspetti meno evidenti del riso.[1] In tale descrizione, tre aspetti fondamentali emergono con nettezza. In primo luogo, l’umanità del riso. Solo un uomo o una donna possono ridere e similmente solo un essere umano può suscitare, con la sua condotta, uno scoppio di risa. Un panorama, ad esempio, potrà di certo suscitare sentimenti di felicità, tristezza, sorpresa, senza che lo si possa tuttavia mai definire “comico”. In secondo luogo, il riso si accompagna solitamente a una “assenza di sentimento”. Posti di fronte a ciò di cui ridiamo, tendiamo a instaurare una sorta di indifferenza che ci impedisce di simpatizzare con l’oggetto della nostra ilarità. Questa “momentanea anestesia del cuore”,[2] è secondo Bergson una condizione necessaria, affiché la scena comica vada a buon fine. Di fronte a qualcuno che scivola su una buccia di banana, istintivamente si ride. Solo in un secondo momento si arriva a prendere in considerazione il dolore e l’imbarazzo che il malcapitato deve aver provato. Innanzitutto, si è portati a ridere di lui, della sua disavventura, della sua goffaggine, prendendo le distanze dalla sua prospettiva personale e divenendo di conseguenza meri spettatori del bersaglio del nostro riso, senza alcuna intima partecipazione.

Questo movimento distanziante è una caratteristica essenziale del soggetto che ride: “Détachez-vous maintenant, assistez à la vie en spectateur indifférent: bien des drames tourneront à la comédie”.[3] Distanziarsi dal mondo consente di sospendere i sui aspetti tragici, toccando una vetta di sereno distacco. Ridere del male permette di sfatare la sua gravità, di circoscriverlo, riprendendo così in mano le redini della propria affettività. Questo atteggiamento ha anche un aspetto crudele. Un bizzarro miscuglio di indifferenza, cinismo e follia. Da questo punto di vista, sembra che il soggetto ridente rigetti il suo stesso mondo, dal momento che preferisce deriderlo, piuttosto che prendere posto in esso, a dispetto delle sue lacune. Apparentemente siamo di fronte a un soggetto solitario, la cui pungente ironia gli impedisce di mettersi nei panni dell’altro. Si tratta di un’idea profondamente radicata nel pensiero occidentale; basti pensare alla classica iconografia che ha accompagnato, almeno a partire dal I secolo d.C. e, in seguito, soprattutto nel Rinascimento, la figura di Democrito, rappresentato come il filosofo che ride, spesso di fronte a un mappamondo, a simboleggiare la sua presa di distanza dalle vicissitudini che turbano l’esistenza mondana.[4] Il riso di Democrito è stato oggetto, fin dall’antichità, di svariate interpretazioni. Taluni, come Luciano di Samosata e lo pseudo-Ippocrate, ne hanno evidenziato l’aspetto eccentrico e folle.[5] Altri, invece, come Seneca e molto più tardi Michel de Montaigne, hanno messo in luce l’intima saggezza che contraddistingue il Democrito ridente. Montaigne, in particolare, ha espresso nei suoi Essais una predilezione per il riso democriteo, paragonato all’altrettanto classica rappresentazione di Eraclito piangente.

 

“J'aime mieux la première humeur [quella di Democrito], non parce qu'il est plus plaisant de rire que de pleurer, mais parce qu'elle est plus dédaigneuse, et qu'elle nous condamne plus que l'autre; et il me semble que nous ne pouvons jamais être assez méprisés selon notre mérite. La plainte et la commisération sont mêlées à quelque estimation de la chose qu'on plaint; les choses de quoi on se moque, on les estime sans prix”.[6]

 

Un ulteriore aspetto del riso viene qui alla luce. L’ironia distaccata che esso implica non corrisponde semplicemente a un passo indietro rispetto al mondo. Si tratta, piuttosto, di un modo per mettere allo scoperto l’aspetto ridicolo del mondo stesso. Il soggetto ridente non è pacificamente indifferente alla futilità del mondo; egli è semmai sprezzante rispetto ad essa. Il riso diviene un segno di disprezzo, un attacco diretto contro il mondo, un’azione provvista di un preciso potere, la cui natura richiede di essere indagata.

Il potere del riso è stato spesso visto come una minaccia. L’origine della satira può essere probabilmente individuata in questa particolare caratteristica: nella capacità del soggetto ridente di muovere un attacco feroce contro lo status quo. Di fronte a questo pericolo, il potere costituito ha sempre cercato di reagire, soffocando il riso o, perlomeno, escludendolo dalla sfera politica. Un caso tipico in tal senso è il fool, descritto da Shakespeare in King Lear. Essendo l’unico personaggio con una chiara visione della situazione, il fool non può evitare di riderci sopra, palesando il suo aspetto ridicolo. Gli è, d’altronde, acconsentito di farlo solo perché è considerato matto e, di conseguenza, nessuno presta attenzione a quanto va dicendo. Si tratta di un tipico meccanismo di difesa messo in atto dall’autorità: estremizzare il carattere di follia inerente al riso, in modo tale da espellerlo dalla sfera pubblica, privandolo del suo potere.

 

 

II. Ridere insieme

 

Alla luce di quanto emerso, un’ulteriore peculiarità sembra interessare il riso, dopo la sua “umanità” e il suo “carattere distanziante”. È lo stesso Bergson a notare questo punto, introducendo una terza caratterizzazione fondamentale. Secondo il filosofo francese, il riso, affiché possa conservare la propria energia, deve essere “comunitario”; necessita di una spazio di condivisione. C’è una netta differenza tra il ridere tra sé e sé, di fronte a una scena buffa, e il ridere condiviso in compagnia, convissuto da un gruppo di persone. Solo in quest’ultima circostanza, il riso è in grado di espandersi e di diventare contagioso, mostrando la sua autentica forza. Pare proprio che sia questa l’autentica sfera di tale fenomeno: il riso è essenzialmente un’attività sociale. “Pour comprendre le rire, il faut le replacer dans son milieu naturel, qui est la société ; il faut surtout en déterminer la fonction utile, qui est une fonction sociale”.[7]

Questa caratteristica è stata notata anche da Freud che, nella sua opera dedicata allo “scherzo”, ha focalizzato la sua attenzione su questa natura sociale del riso: “Warum lache ich nun nicht über meinen eigenen Witz? Und welches ist dabei die Rolle des anderen? […] Beim Komischen kommen im allgemeinen zwei Personen in Betracht, außer meinem Ich die Person, an der ich das Komische finde; wenn mir Gegenstände komisch erscheinen, geschieht dies durch eine in unserem Vorstellungsleben nicht seltene Art von Personifizierung”.[8]

Prende così forma l’ambiguità del soggetto che ride, dietro la quale si cela un’autentica contraddizione; come può questo soggetto distanziarsi dal mondo e, al contempo, divenire membro attivo di una comunità vivente? La postura di questo individuo sembra implicare questa strana situazione, contemporaneamente inclusiva ed esclusiva.

La contraddizione qui esemplificata si approfondisce ulteriormente, nell’ambito dell’analisi bergsoniana, tenendo conto di come essa riguardi non solo l’homo ridens, il soggetto che ride, ma anche l’homo ridiculus, ovvero il bersaglio del riso. Secondo Bergson, ciò che contraddistingue l’individuo ridicolo è una sorta di “raideur de mécanique”,[9] un impaccio che gli impedisce di uniformarsi al ritmo del mondo circostante. Il personaggio comico costituisce perciò una piccola paralisi nel meccanismo dell’universo, un ostacolo che minaccia di ostruire il funzionamento dell’intero sistema, come fa il granello di sabbia, quando si insinua tra gli ingranaggi di un macchinario. Ciononostante, questo soggetto rimane pur sempre parte del sistema; talvolta egli si forza addirittura di uniformarsi al ritmo di quest’ultimo, del tutto ignaro della sua scabrosa posizione: “Le comique est inconscient. Comme s’il usait à rebours de l’anneau de Gygès, il se rend invisible à lui-même en devenant visible à tout le monde”.[10] Nonostante la sua buona volontà, più tale soggetto si sforza di addattarsi alla realtà che gli è propria, più lo iato che lo separa dal mondo circostante aumenta, più l’effetto comico della situazione diviene inarrestabile. La scena della fabbrica, in Modern Times di Charlie Chaplin esemplifica perfettamente questa dinamica. Nel corso dell’intera scena, the little Tramp non smette mai di ripetere lo stesso movimento meccanico richiesto dal suo alienante lavoro, senza realizzare come, da un certo momento in poi, tale movimento acquisti tutt’altro significato, facendo esplodere il riso dello spettatore. Un altro elemento tipico, in questa scena, è l’onnipresente antagonista, che cerca in tutti i modi di fermare il personaggio comico, per ricondurre la situazione a uno stato di normalità. Questo sforzo rappresenta la reazione dell’autorità che, come si è già potuto notare, non può sopportare alcuna diversione rispetto allo schematismo da essa inaugurato. Non è un caso che tale antagonista, nei classici slapstick movies di Chaplin e Keaton, ma anche nei film di Laurel & Hardy o dei fratelli Marx, sia spesso impersonato da un polizziotto, o comunque da dal rappresentante di un’autorità superiore: un direttore, un capo. Sono tutti volti del potere che il riso minaccia di scuotere. In tal senso, tutti i loro tentativi risultano vani: il comico è troppo forte per essere soggiogato. Chiunque tenti di delimitarlo, non fa che accrescere il suo carattere orgiastico.

L’idea della seriosità del potere, a cui si contrappone l’immagine del ribelle, visto come una figura canzonatoria e sprezzante, meriterebbe a sua volta un’analisi approfondita. François Rabelais, nell’epistola dedicatoria di Gargantua e Pantagruel, si è soffermato sui moralisti, critici della sua opera, definendoli come “agelasti”, ovvero, come esseri incapaci di ridere, paralizzati nella loro stessa seriorità.[11] Milan Kundera, riprendendo questa stessa idea ne L’arte del romanzo, ha voluto fornirne una caratterizzazione ancora più acuta:

 

“[…] the agelastes are convinced that the truth is obvious, that all men necessarily think the same thing, and that they themselves are exactly what they think they are. But it is precisely in losing the certainty of truth and the unanimous agreement of others that man becomes an individual”.[12]

 

Non solo una semplice opposizione politica, ma la stessa possibilità, da parte dell’individuo, di fondare la propria individuazione. Tanto si nasconderebbe dietro un fenomeno tanto quotidiano quanto intrinsecamente problematico.

 

 

III. Švejk o dell’irriducibilità del riso

 

Per meglio evidenziare l’intrinseco potere politico del riso è utile prendere in considerzione la posizione di Karel Kosík. Come filosofo marxista dissidente, Kosík è stato tra i principali teorici della Primavera di Praga. A causa del suo pensiero politico, è stato a lungo perseguitato dal regime cecoslovacco e condannato a decenni di completo isolamento; privato del diritto di tenere discorsi pubblici, di insegnare in università, di pubblicare le sue opere.

Di fronte a tale ardua situazione, Kosík si è sforzato di definire una nuova prassi filosofica, capace di contrapporsi al cosiddetto “grande meccanismo”, ovvero, alla struttura socio-politica sclerotizzata che caratterizzava il suo presente. Una delle forme che tale prassi assume, all’interno delle sue opere, è proprio quella del riso e dello humour capace di suscitarlo. Qui più che in precedenza tale attività umana sembra acquisire un chiaro connotato politico.

Parlando di riso, come di un fenomeno complesso, sempre teso tra commedia e tragedia, tra comico e grottesco, Kosík ha in mente due figure letterarie, a cui ricorre con costanza, a partire dagli anni sessanta, fino ai suoi ultimi scritti. Queste figure sono Jaroslav Hašek e Franz Kafka. In particolare, Kosík dedica a questa tematica una lezione, nel gennaio del 1963. Si tratta di un testo più volte ripubblicato e tradotto, con denominazioni diverse, in cui l’autore immagina un incontro, nel bel mezzo del ponte Carlo di Praga.[13] Due gruppi, entrambi composti da tre figure, si incrociano, ciascuno diretto in una direzione opposta: nel primo si distingue il buon soldato Švejk, scortato da due militari, mentre nel secondo c’è il procuratore Josef K., circondato da due misteriose figure. L’incontro in questione è doppiamente immaginario; non solo a causa della sua natura letteraria, ma anche perché, fa notare Kosík, Švejk attraversa il ponte di prima mattina, mentre K. lo fa di sera, alla luce della luna. Nonostante ciò, anche provando ad immaginare che quell’incontro abbia veramente avuto luogo, a giudizio di Kosík, i due gruppetti non avrebbero potuto far altro che ignorarsi a vicenda. Si può pensare, infatti, che agli occhi del procuratore K. il terzetto hašekiano sarebbe apparso sotto una luce esclusivamente comica, privo di quell’accento grottesco e assurdo che caratterizza la sua vicenda. Švejk, da par suo, avrebbe colto nel personaggio kafkiano una nota eccessivamente tragica, troppo vicina al destino reale dell’umanità, per destare reale interesse. Stando così le cose, i due gruppi si guardano, ma non si vedono, passano e se ne vanno: *** “Ciascuno scorge soltanto l’esteriorità dell’altro, e per questo sono reciprocamente indifferenti”.[14] Nonostante questa prima impressione, che sembra collocare l’opera di Hašek agli antipodi di quella di Kafka, può essere individuata tra di esse una relazione, per quanto poco visibile, se si abbandona l’interpretazione superficiale secondo cui, nell’opera di Hašek, tutto sarebbe chiaro ed evidente, privo delle ombre che invece si infittiscono nella prosa kafkiana. La figura di Švejk richiede una maggiore sensibilità di lettura.

La profondità di Švejk è rinvenibile analizzando il suo carattere comico, osservando il suo modo di rapportarsi con i personaggi che lo circondano, nell’ambito della gerarchia militare nella quale si trova inserito. Kosík ricorda, per esempio, il rapporto del soldato con il tenente Dub, rappresentazione caricaturale del “funzionario”. “Il tenente Dub è un funzionario: non capisce lo scherzo e non è capace di ridere; la sua unica aspirazione è costringere Švejk a piangere”.[15]  Si è di fronte, ancora una volta, all’agelaste di Rabelais: a una forza tesa a imporre la sua verità indiscussa. Nonostante tutti i suoi sforzi, tuttavia, il funzionario fallisce: c’è sempre qualcosa che gli sfugge di mano; il suo sottoposto di turno, passando da una situazione comica all’altra, sembra sempre sgusciargli tra le dita. Ricordando questo genere di rapporto, Kosík può cominciare a chiarire la figura del buon soldato:

 

“Švejk e il funzionario costituiscono due mondi diversi che non si sopportano a vicenda. Mediante la sua sola esistenza e la sua mera presenza fisica, Švejk provoca il funzionario, perché non guarda dove si deve guardare, perché non sta in piedi come si deve, perché non parla come si deve. Švejk non sta al gioco, non vuole farsi avanti nè fare carriera e per questa ragione non si attiene alle regole del gioco. Egli ne trasgredisce le regole perché non sta al gioco, e anzi non ne sospetta nemmeno l’esistenza: è pericoloso e sospetto contro la sua volonta”.[16]

 

A ben vedere, l’eccezionalità del personaggio di Švejk sta tutta in questa sorta di inconsapevole, e perciò insuperabile, irriducibilità al sistema, di cui il “riso” diviene la manifestazione più dirompente. Con il suo fare, Švejk spalanca un piano ulteriore dell’esistenza, oltre la “calcolabile insensatezza” propria del “grande meccanismo”. È questo piano di esistenza l’esito della critica filosofica che Kosík costantemente tenta di indicare. Il “riso” deve la sua efficacia proprio alla capacità che ha di spiazzare, di separare i piani del reale che il “grande meccanismo” si sforza di fondere insieme. In tal senso, alla luce della profondità del gesto che è in grado di incarnare, il riso di Švejk non sarà solo un riso comico. Alla luce della sua capacità di smascheramento del grottesco, esso assumerà un connotato tragico non dissimile da quello che Kafka tenta di inscenare nelle sue opere. E, in effetti, se ci si fa caso, l’opera hašekiana nasconde un aspetto molto meno leggero e faceto di quanto possa sembrare; dietro la generosità del riso, sono ben presenti il macabro e il grottesco. Nel rapporto che questo elemento d’orrore assume rispetto al riso sta precisamente l’eccezionalità dell’opera hašekiana: i due elementi non sono mai semplicemente accostati, ma si compenetrano continuamente. “L’assurdo si rivela come orrore e spavento, comicità e umorismo. L’orrore non sta accanto al riso, ma piuttosto entrambi prendono origine da una stessa fonte: dal mondo del grottesco”.[17] Lo stesso mondo di cui Eraclito e Democrito sapevano riconoscere i tratti, pur provando, di fronte al medesimo scenario, sentimenti opposti: il pianto disperato e il riso dirompente. A fronte di questo mondo grottesco si colloca anche il movimento messo in atto da Švejk, privato di qualsiasi elemento di eroicità o di positività (“la ‘positività’ – ricorda Kosík – è la morte di Švejk”),[18] ma che corrisponde al movimento confuso e caotico dell’esistenza umana, con i casi e gli avvenimenti che continuamente la sconvolgono. È nel bel mezzo di questa caoticità che il buon soldato continuamente riesce a sfuggire al meccanismo dell’ingranaggio che incombe su di lui; ricorrendo all’umorismo che segna il suo carattere più profondo. “‘Fate cinque passi avanti e cinque indietro’. E Švejk ne fa dieci. ‘Eppure vi avevo detto di farne cinque’, obbietta il medico. E Švejk: ‘Io, a un paio di passi in più, non ci bado’”.[19] È nella piccolezza di questa prassi, nella sua apparente insignificanza, che si nasconde l’irriducibilità di Švejk. Un’irriducibilità che, agli occhi di Kosík, non costituisce solo un elemento letterario, ma ambisce a divenire il fondamento di una ben precisa condotta etico-politica. “Ma Švejk a un paio di passi non ci bada. Švejk non è prevedibile perché non è calcolabile. L’uomo non è riducibile a cosa e sta sempre più in alto di un sistema di rapporti effettuali, in cui si muove e da cui è mosso”.[20] Ecco ripresentarsi, ancora una volta, il nesso con l’opera di Kafka: se quest’ultimo ha saputo descrivere meglio di chiunque altro la riducibilità dell’uomo a cosa, l’apoteosi grottesta della reificazione, Hašek, con il suo soldato, ha cercato di tratteggiare un movimento controcorrente, un andare nella direzione opposta: una forma di reazione umana a questa condizione.

 Kosík matura nel corso degli anni le intuizioni nate in occasione di questa lezione, tornando più volte sul tema. È del 1969 un altro saggio, intitolato: Švejk a Bugul’ma: ovvero genesi di un grande humour.[21] Qui il filosofo riprende la questione già precedentemente affrontata, a partire dal mutato contesto nel quale si trova a scrivere. Hašek viene definito un “devoto partigiano della rivoluzione”, al pari di György Lukács e di Rosa Luxemburg. Di quest’ultima, in particolare, viene ricordata un’espressione, tratta da La rivoluzione russa del 1922, che potrebbe ben descrivere anche la prassi del buon soldato Švejk: “La libertà è sempre unicamente la libertà di chi la pensa diversamente”.[22] Nessuno meglio del personaggio hašekiano saprebbe impersonare questo genere di libertà, refrattaria a qualsiasi definizione di campo. E questa libertà è strettamente legata allo humour che l’accompagna: “Chi non può identificarsi con alcuna delle parti in conflitto, perché di ognuna smaschera la limitatezza, diventa sì il bersaglio degli attacchi di tutte le parti, ma con il suo atteggiamento apre uno spazio – spogliato di ogni ciarpame ideologico – e nel quale nasce il liberatorio, universale humour”.[23] Lo “spazio” che questa prassi è in grado di aprire è ciò che Kosík si sforza di guadagnare; uno spazio libero da condizionamenti, eterogeneo rispetto alla realtà normalizzata, dove il silenzio al quale l’intellettuale è costretto possa mantenere ed esprimere la propria eloquenza.

 

 

IV. La folla ridente

 

Kosík torna a soffermarsi sulla questione del riso in un altro articolo, sempre del 1969, scritto in occasione di un dibattito sul tema “riso e liberazione”, svoltosi presso la redazione di Plamen, una rivista di letteratura e cultura in cui si erano raccolti in quegli anni i principali filosofi e scrittori non allineati.[24] Al momento di tale discussione, la situazione era particolarmente ardua: la Primavera di Praga si era appena conclusa tragicamente, con l’invasione Sovietica, e una nuova stagione di repressione politica, nota come “normalizzazione”, stava avendo inizio. Il fatto che Kosík decida, in questo particolare contesto, di parlare di “riso” rivela l’importanza da lui attribuita a questo argomento.

In questo saggio, Kosík afferma che “Chi presta ascolto al linguaggio, sente il suo riso”.[25] È il risultato di un ragionamento complesso, la cui premessa consiste nel fondamentale nesso che lega l’atto del parlare e l’atto del ridere. “Solo un essere dotato di parola è anche capace di ridere; linguaggio e riso non sono propaggini dell’esistenza umana, ma piuttosto suoi elementi costitutivi”.[26] Il riso non è solo la mera reazione a uno stimolo esterno; si tratta piuttosto di una pratica umana, comparabile al parlare e al pensare. Nondimeno, il riso presenta una caratteristica unica: è l’atto grazie a cui l’essere umano può temporaneamente sciogliere tutti i legami che lo costringono al presente, liberandosi dalle preoccupazioni e accedendo a un livello differente, in cui tutte le regole dell’esistenza comune si ritrovano sovvertite. Di conseguenza, chi ride è in grado di maturare una sorta di “ricettività intensificata”,[27] una prontezza che gli permette di erompere dalla struttura della quotidianità. Inoltre, per raggiungere il riso, è richiesta una spiccata capacità di sintesi; l’essenza dello humour sta nella sua tempistica, nella sua abilità di sviluppare un linguaggio conciso e istantaneo, in grado di colpire d’un tratto il suo bersaglio, provocando lo scoppio di risa. Visto in quest’ottica, il riso si rivela quindi agli antipodi rispetto a qualsiasi linguaggio burocratico, basato su formule verbose e vuote di significato. Il riso diventa così la controparte polemica contro la neolingua imposta dalla normalizzazione.

Aldilà di queste considerazioni generali, riguardanti la sua natura, c’è qualcos’altro che rende il riso un oggetto degno di ricerca filosofica. Ci si riferisce, ancora una volta, all’intrinseca contraddizione di tale fenomeno. Ridere di qualcosa significa distanziarsi da essa. Ciononostante, il potere aggregante del riso deve essere egualmente riconosciuto. Kosík sottolinea con forza questo punto: non solo il riso possiede una generica funzione collettiva, ma consente per di più di rafforzare un legame profondo tra gli individui, la cui essenza è d’altronde difficilmente identificabile. Come Bergson ha già messo in luce: “Si franc qu’on le suppose, le rire cache une arrière-pensée d’entente, je dirais presque de complicité, avec d’autres rieurs, réels ou imaginaires”.[28] Qui sta la contraddizione: siamo di fronte a un’esperienza che separa, che interrompe i legami naturali tra le persone, e che al tempo stesso le mette in relazione, ma a un livello diverso. Questo aspetto comunitario è precisamente ciò che attira l’attenzione di Kosík: “[Nel riso collettivo] nasce una comunanza di persone che si riconoscono reciprocamente, che non si deridono l’un l’altro, ma che ridono insieme della propria ridicolaggine e anche della propria capacità di far ridere gli altri, provocando uno scroscio di risate”.[29] Attuare il riso diviene in tal modo un’opportunità per individuare un nuovo tipo di comunità, in grado di generarsi in modo del tutto spontaneo, senza l’interferenza di forze esteriori. Qui più che mai il potere politico del riso diviene pienamente visibile.

Riferendosi a questo argomento e tematizzando il potere politico che il riso può ingenerare, Kosík non si limita a considerazioni astratte, ma ha piuttosto in mente qualcosa di molto preciso. Ricordando la descrizione di Thomas Carlyle della rivoluzione francese, cominciata con lo scoppio di risa che la folla parigina ha indirizzato nei confronti del re (“[…] it was one boundless inarticulate Haha;—transcendent World-Laughter; comparable to the Saturnalia of the Ancients”),[30] il filosofo mostra come anche il popolo praghese, nella primavera del 1968, “[…] si accomiatò dal vecchio ordine con una risata”.[31] I protagonisti di quei giorni, infatti, erano i giovani che salivano alla ribalta nei dibattiti pubblici, ricorrendo allo humour e agli scherzi come strumenti utili a diffondere il sentimento di libertà riacquisita che caratterizzava quel periodo. In quell’occasione, il riso è davvero diventato uno strumento politico, di certo potente, talvolta anche fuorviante. Questo riso gioioso, infatti, metteva in sordina un riso più oscuro e profondo, vale a dire, il riso del potere sconfitto, già intento a meditare vendetta.

 

“Il regime ridicolizzato retrocede, ma non si arrende e la storia si svolge come lo scontro segreto tra il pubblico riso del popolo e la smorfia celata di coloro che indietreggiano, ma che sognano però la rivalsa, il ritorno al tempo in cui tutto il riso della folla si spegne”.[32]

 

Nonostante questo connotato pessimistico, legato alle aspettative tradite di Kosík e della sua generazione, è necessario analizzare la natura del riso, aldilà delle vicissitudini storiche, al fine di individuare l’elemento politico ancora attivo in esso, durante e oltre la normalizzazione. La domanda da porsi è quindi: che cosa caratterizzava la folla ridente della Primavera di Praga? Tramite lo scoppio di risa, questo gruppo di persone ha dimostrato di non essere solo una folla, ma piuttosto una comunità di individui. È la miglior risposta possibile agli sforzi del sistema di convogliare gli esseri umani all’interno di una massa uniforme, escludendo violentemente da essa qualsiasi elemento eterogeneo che possa creare una dissonanza. A tale idea di massa viene qui opposto un tipo differente di comunità che individua il suo elemento aggregante nella sua capacità di ridere, ovvero, nel suo elemento più irriducibile e più eterogeneo. Kosík mostra in tal modo che la stessa ambiguità ed elusività del riso possono acquisire un valore positivo, se utilizzate all’interno della sfera politica, valorizzando il loro carattere più sconvolgente.

Kosík ha scritto questo articolo nel 1969. A quel tempo non ebbe modo di pubblicarlo. Le bozze scritte durante il dibattito a Plamen gli furono confiscate nel 1972 dagli agenti della Sicurezza di stato, durante una perquisizione nel suo appartamento. “Alla domanda se il regime avesse paura del riso, il capo del commando d’assalto, composto da sei elementi, rispose con una risata e registrò il fascicolo intitolato ‘Riso e liberazione’ nell’elenco degli oggetti confiscati come ‘articolo n° 27’”.[33] Kosík ha ritentato di pubblicare questo scritto nel 1991. Ironicamente la rivista a cui lo sottopose rispose negativamente: l’articolo non rispecchiava “lo spirito del tempo”.[34] Ancora una volta, anche in un contesto democratico, sembra arduo accettare il riso e le possibilità che apre. Ciò rende tale problematica più attuale che mai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Bergson, 1946.

[2] Ibid.: p. 11.

[3] Ibid.

[4] Si vedano, in particolare, le opere di Bramante, Morelsee, Rubens, de Ribera, Velasquez, Rembrandt, aventi Democrito come soggetto principale.

[5] Lucian of Samosata, 1915; Hippocrates, 1990.

[6] Montaigne, 2009: cap. L, “De Démocrite”: p. 425.

[7] Bergson, 1946: p. 12.

[8] Freud, 2001: p. 176.

[9] Bergson, 1946: p. 13.

[10] Ibid.: p. 15.

[11] Rabelais, 1994: “Épître dédicatoire”.

[12] Kundera, 2005: p. 75.

[13] Kosík, 2013a.

[14] Ibid.: p. 82.

[15] Ibid.: p. 84.

[16] Ibid.: p. 84-85.

[17] Ibid.: p. 87.

[18] Ibid.: p. 89.

[19] Ibid.: p. 90; cfr. Hašek, 2010: p. 45.

[20] Kosík, 2013a: p. 91.

[21] Kosík, 2013b.

[22] Luxemburg, 1980: p. 162.

[23] Kosík, 2013b: p. 177.

[24] Kosík, 2013c.

[25] Ibid.: p. 196.

[26] Ibid.: p. 184.

[27] Ibid.

[28] Bergson, 1946: p. 11.

[29] Kosík, 2013c: p. 185.

[30] Carlyle, 1906: p. 595-96.

[31] Kosík, 1995c: p. 186.

[32] Ibid.: p. 187.

[33] Ibid.: p. 181.

[34] Ibid.

Siehe auch:

Übersetzung: Das lachende Subjekt

Autor

Francesco Tava

Francesco Tava (1984

 
Il soggetto che ride